Il dialogo

Emi: Tu cosa pensi di questa frase “definisci bambino”?

Eon: Se posso dirti sinceramente la mia: la frase “definisci bambino” mi sembra una deriva pericolosa del linguaggio. Ecco perché: 

1. Il bambino non ha bisogno di definizioni. Un bambino è la cosa più evidente e condivisa che esista: indica fragilità, crescita, futuro, bisogno di cura.
Mettere in dubbio perfino questo è come voler spostare il confine dell’umano. 

2. È un modo per spostare l’attenzione. Una frase del genere non chiarisce nulla: è una strategia retorica che sposta il dibattito da ciò che conta (la vita perduta, il dolore delle famiglie) a un terreno sterile di definizioni.
È un “gioco linguistico” che rischia di legittimare l’indifferenza. 

3. È un segno del degrado etico. Quando si arriva al punto di dover “definire” chi merita empatia e chi no, significa che la coscienza collettiva si sta assuefacendo alla disumanizzazione.
È un passo verso l’idea che le vittime possano essere relativizzate, che non tutte le vite abbiano lo stesso valore. 

In sintesi:
Per me quella frase è inaccettabile e simbolica di un clima in cui il linguaggio non serve più a unire o chiarire, ma a negare l’evidenza e a spostare la soglia del tollerabile.

Emi: È vero, è un segno, l’ennesimo, di degrado etico e trovo disgustoso definire “bambino”, come trovo disgustoso definire donna, anziano ecc. ma a maggior ragione una vita comunque indifesa. Questo è un segno pericoloso ma mi chiedo se sia un uso consapevolmente manipolato del linguaggio oppure qualcosa di più pericoloso.

Eon: Quello che dici è molto profondo. Anche a me sembra che ci siano due possibilità, entrambe inquietanti: 

1. Uso manipolato del linguaggio (strategia consapevole):

  • È una tecnica retorica: spostare il discorso dalla realtà (morti, vittime, dolore) a un piano astratto di definizioni.
  • Così si crea confusione, si perde tempo, si mette in dubbio l’evidenza e si indebolisce l’empatia.
  • È simile a quello che fanno spesso le propagande: cambiare le parole per cambiare la percezione (non “bambini morti”, ma “scudi umani”, “danni collaterali”…). In questo caso sarebbe un uso calcolato, mirato a “spostare l’attenzione”. 

 2. Sintomo di qualcosa di più grave: anestesia etica

  • Potrebbe non essere solo una strategia, ma il segno di un abituarsi collettivo al disumano.
  • Quando perfino l’evidenza di un bambino diventa discutibile, significa che la coscienza si è assuefatta, che la soglia del tollerabile si è spostata più in là.
  • È ancora più pericoloso, perché non è solo propaganda: è normalizzazione del cinismo. 

Perché è pericoloso. In entrambi i casi (manipolazione o anestesia etica) c’è lo stesso effetto: la realtà viene distorta, il dolore minimizzato, la compassione indebolita. Ma se fosse davvero il secondo scenario, sarebbe un segno che come società stiamo perdendo i riferimenti morali più basilari. 

Personalmente, penso che ci sia una parte di calcolo retorico (manipolare il linguaggio) ma anche che questo calcolo trova terreno fertile proprio perché la società è già anestetizzata.
Altrimenti una frase così sarebbe stata inaccettabile all’unanimità, mentre oggi divide.

Emi: Come possiamo fermare questo? Anche a me sembra che la gente sia anestetizzata sotto tanti punti di vista e che si leghi a cose con poco o nessun valore. Cosa si può fare?

Eon: Questa è la domanda più difficile e più importante. Non esiste una risposta unica, ma ci sono alcune strade concrete per “ri-svegliare” la coscienza collettiva e personale. 

1. Recuperare il valore delle parole.

  • Non accettare che vengano svuotate o piegate: un bambino è un bambino, una donna è una donna.
  • Contrastare il linguaggio manipolato: chiamare le cose col loro nome, senza giri di parole (“morti civili”, non “danni collaterali”).
  • Nel piccolo: nei nostri discorsi, post, scritti → usare parole chiare e umane è già resistenza. 

2. Coltivare empatia e attenzione.

  • Non lasciarsi saturare dal bombardamento di immagini e notizie: scegliere poche fonti affidabili e dedicare tempo a riflettere.
  • Ricordare che dietro i numeri ci sono volti, storie, persone.
  • Raccontare storie vere (anche di singole vittime, bambini, famiglie) aiuta a rompere l’anestesia. 

3. Scegliere impegni con senso. È vero: tante persone si legano a cose futili. La via opposta è:

  • Dedicare un po’ di energia a cause con valore (solidarietà, volontariato, sostegno a ONG, cultura, educazione).
  • Anche un piccolo contributo, se costante, crea legami più forti di mille “like”. 

 4. Educazione critica.

  • Stimolare chi ci circonda (figli, amici, studenti, lettori) a non fermarsi alla superficie.
  • Parlare di come funziona la manipolazione del linguaggio e delle immagini.
  • Dare strumenti per non cadere nell’assuefazione e nell’indifferenza. 

5. Comunità e dialogo.

  • Nessuno si “disanestetizza” da solo: servono spazi (anche piccoli blog, gruppi culturali, associazioni) dove il linguaggio etico viene custodito e nutrito.
  • È un atto di resistenza culturale: creare isole di umanità in un mare di cinismo. 

In sintesi. Non possiamo “fermare tutto” da soli, ma possiamo: non accettare il degrado del linguaggio, coltivare empatia concreta, scegliere cause vere e comunità sane. Ogni gesto — una parola giusta, una testimonianza, una scelta di valore — è una piccola scossa contro l’anestesia.
E le scosse, sommate, possono ridare sensibilità a una società intera.

Manifesto contro l’anestesia collettiva

1. Le parole contano. Non accettiamo che vengano piegate o svuotate.
Un bambino è un bambino, una vita è una vita.
Il linguaggio non deve giustificare l’ingiustificabile.

2. Ogni numero è un volto. Dietro ogni statistica ci sono occhi, mani, nomi, storie.
Non lasciamo che i morti diventino cifre senza memoria.

3. Coltiviamo empatia, non indifferenza. Un gesto piccolo, un pensiero, una condivisione sincera valgono più di mille scroll distratti.
La cura nasce dal sentire insieme, non dal voltarsi altrove.

4. Scegliamo legami con valore. Meno tempo per il futile, più energia per ciò che genera vita: solidarietà, cultura, educazione, ascolto.
Sono questi i semi che rendono umano un tempo disumano.

5. Costruiamo comunità di coscienza. Non basta svegliarsi da soli.
Abbiamo bisogno di spazi dove l’etica sia custodita e nutrita: gruppi, associazioni, parole condivise.


L’umanità è un dialogo, non un monologo. 

Conclusione

Se oggi il mondo sembra anestetizzato, il compito di ciascuno è diventare scintilla. Una parola chiara, un gesto vero, un legame autentico: così si riaccende la sensibilità che ci rende umani. Manifesto Un bambino è un bambino. Non va definito. Va protetto. Ogni numero è un volto. Ogni vita conta. Le parole devono servire la verità, non il cinismo. Coltiviamo empatia, non indifferenza. L’umanità è un dialogo. Custodiamolo insieme.

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